Uno dei migliori film nella storia del cinema è stato legittimamente premiato con l’Oscar nella notte italiana. Ma mentre andava a fare baldoria in qualche taverna di Los Angeles, il trentenne lettone Gints Zilbalodis, regista di “Flow“, sarà stato colto da uno spaesamento tipicamente baltico alla notizia dei riconoscimenti principali. “Avrò anche battuto Inside out 2 nella categoria animazione – si sarà detto -, ma sarà mica che questo Oscar non vale un fico sacro se tutti quelli più importanti li vince Anora?”.
Premessi ogni anno i soliti concetti, ovvero che l’Academy americana non è il Verbo e che ha diritto di cittadinanza perfino chi è entusiasta di “C’è ancora domani”, il mondo delle premiazioni cinematografiche trova sempre nuovi modi per sbalordirti. Non tanto perché “Anora” si è beccato la statuetta, ormai simbolo di una macchina industriale sempre più legata ai giochi di potere, ma perché incredibilmente aveva vinto anche a Cannes; un posto dove se non ti presenti con un’epopea filippina in bianco e nero di 4 ore non vai da nessuna parte.
E invece nel 2024 in Francia avevano pensato bene che dovesse spuntarla una commediola giovane che spara a tutto volume sesso e soldi come unici obiettivi di due ragazzi desolatamente vuoti, tra stordimenti in discoteca, piste di droga e buffi sgherri russi di vago stampo tarantiniano. Una storiella leggera e incalzante che avrebbe potuto comodamente spadroneggiare nelle multisale tra gli spettatori under 20 del sabato sera (con qualche successivo passaggio su Cielo nelle ore notturne), ma che per misteriosissimi motivi è finita in concorso a Cannes e addirittura è diventata palmata.
C’è giusto qualche galassia di distanza con la meraviglia assoluta di Flow. Un film che nella scheda di presentazione alla voce dialoghi riporta solo “meow” e “woof”, perché in questa fantasmagorica odissea apocalittico-oceanica non c’è traccia degli uomini e i protagonisti animati si comportano esattamente da animali con una verosimiglianza che lascia tramortiti. Come qualcuno a 29 anni possa averlo concepito e diretto, scrivendo pure le musiche, è un mistero tanto sconvolgente quanto quello di Anora.
Candidato meritatamente anche come film internazionale, Flow si è visto scavalcare dall’acclamatissimo brasiliano “Io sono ancora qui“, detentore di una sceneggiatura debolissima piena di scene inutili e salti nel tempo che ammazzano una storia di importanza cruciale, perché ci dovrebbe far conoscere dittatura e desaparecidos molto meno noti di quelli argentini.
Nel facile passaggio da flow a flop, qualcosa bisognerà pur dire su “Emilia Perez“. Preceduto per mesi dalla fanfara con lo striscione “Film dell’anno”, porta a casa solo l’Oscar per la non protagonista Zoe Saldana. Ma sarebbe bello credere che il naufragio non abbia nulla a che vedere con gli infelici tweet retroattivi dell’attrice Karla Sofia Gascòn, che qualcuno sostiene abbiano screditato il film, quanto piuttosto con l’eccesso di ambizione di un regista solido come Audiard (“Sulle mie labbra”, “Tutti i battiti del mio cuore”, “Un sapore di ruggine e ossa”) che si è infilato in un pasticcio del tutto fuori dalle sue corde: ovvero la scelta modaiola del musical tradotta quasi esclusivamente in dialoghi più gracchiati che cantati, con pochissime grandi coreografie e un profluvio di progressiva retorica. Peccato, perché la partenza con il super boss che non riesce a sopprimere la sua vera natura femminile è folgorante.
L’altro film “vinco tutto io” era “The brutalist“. Tre ore e 35 minuti (escluso l’intervallo più lungo della storia, un quarto d’ora) diretti dal ragazzino di “Funny games” diventato grande, tale Brady Corbet. Del cui corpo probabilmente si è impossessato Paul Thomas Anderson, quello di “The master” e “Il petroliere”, mastodonti elegantissimi e maniacali riassumibili in una parola perfetta: mattoni. Da Brady a Brody, è arrivata solo la statuetta per il miglior attore: bella prova, ma il Trump di Sebastian Stan (affiancato dal vero numero uno dei non protagonisti, Jeremy Strong) e il Dylan di Chalamet avevano dietro una preparazione di un altro livello. Sempre che agli Oscar uno creda davvero.